Laguna, recensioni #2

Donato Rotelli ha dedicato una splendida recensione a LagunaL’articolo, pubblicato in origine sul suo Blog senza pretese analizza nel dettaglio le peculiarità del romanzo di Nnedi Okorafor.

Ve la riproponiamo qui di seguito.


 

Laguna di Nnedi Okorafor è forse uno dei titoli più spiazzanti del catalogo di Zona 42, lontano com’è dai canoni del romanzo tradizionale a cui siamo abituati, specie nella fantascienza. Eppure l’editore non è nuovo a queste sfide, e puntando su un romanzo così eccentrico riesce ancora una volta ad affermare che la fantascienza non è un genere appiattito sugli stereotipi della « golden age » ma può contenere le tematiche e le forme più disparate e parlare a qualsiasi lettore.
Il romanzo inizia nel modo più classico: un’invasione aliena, tre personaggi (una donna e due uomini) che vengono rapiti e in qualche modo modificati dagli invasori, il panico e il fanatismo per le strade.
Ma tutto è raccontato in modo così diverso dal solito che stentiamo a riconoscere i cliché.

Il caos

Il caos non è qualcosa che Nnedi Okorafor racconta: la trama stessa si snoda in modo caotico, alternando brevi episodi senza sviluppo alle vicende dei quattro protagonisti, mescolando scene narrative a inserti di varia natura (riflessioni, brani poetici, commenti). In alcuni capitoli al narratore in terza persona se ne sostituiscono altri in prima persona.
Seguire gli sviluppi della storia può essere spiazzate per chi è abituato ai canoni del romanzo europeo e nordamericano. Molte azioni avvengono senza apparente motivo e non sempre è facile comprendere le decisioni dei personaggi o il perché ci vengano raccontati certi episodi; alcuni personaggi che consideravamo principali spariscono a metà del romanzo, altri vengono presentati nell’ultima parte; durante la lettura non è chiaro dove l’autrice ci stia conducendo.
È lo stesso tipo di smarrimento che ho provato leggendo miti o fiabe africane, basate su strutture molto diverse dalla tradizione europea.
Tuttavia il caos di voci, sguardi prospettive – ritmi – che frammenta la narrazione di Nnedi Okorafor è bilanciato da una forma romanzesca classica: tre parti, ognuna di una ventina di capitoli di varia lunghezza, ma generalmente molto brevi, introdotte da un Prologo che adotta il punto di vista di un animale (un pesce spada, un ragno, un pipistrello).
Questa duplicità è il segreto di un romanzo in bilico tra due culture.

« Io ero lì »

Nei ringraziamenti l’autrice racconta che il primo spunto per Laguna fu la visione del film District 9, che immagina un’invasione aliena in Sudafrica: le reazioni del tutto inverosimili dei personaggi africani l’hanno spinta a chiedersi cosa sarebbe accaduto se gli alieni fossero atterrati nel suo paese d’origine.
Si può dire che il romanzo è frutto di una riflessione antropologica. L’invasione aliena è un pretesto per mettere in scena la molteplicità di voci del suo paese d’origine. Il lettore è catapultato in una Nigeria dai forti contrasti, messo faccia a faccia con le ingiustizie e i pregiudizi radicati in una società che sembra mossa da sentimenti improvvisi e totalizzanti, dagli slanci di generosità alla persecuzione feroce di chi è diverso.
Non c’è condiscendenza né paternalismo nel modo in cui Nnedi Okorafor racconta il suo popolo d’origine. C’è una totale immersione e partecipazione, priva di giudizi e facili moralismi.
Alcuni dei capitoli più originali, al centro del romanzo, danno voce in prima persona agli abitanti di Lagos, che esordiscono tutti con «Io ero lì» e raccontano l’incontro con un alieno (percepito come stregone o divinità tradizionale).
Io ero lì è, tra le altre cose, l’artificio narrativo su cui si fonda gran parte della narrazione antropologica moderna: la presenza « sul campo » dell’antropologo come punto di partenza essenziale per l’incontro con la cultura altra (in aperta polemica con l’antropologia « da tavolino » praticata nel primo Novecento). Consapevolmente o meno l’autrice afroamericana, che vive a cavallo tra due culture, si pone di fronte alla materia narrata come l’antropologo partecipante fa con cultura vuole conoscere. Lo stratagemma dell’Io ero lì è solo uno dei tanti modi con cui la Okorafor vuole farci avvertire la presenza, il suo essere radicata nel suo paese, fatto di suoni, ritmi, colori, tradizioni e contraddizioni.
L’immaginario popolare e le tradizioni religiose della Nigeria si fondono nel romanzo con la riflessione scientifica. Anzi, sarebbe più corretto dire che la scienza viene interpretata con gli schemi del pensiero magico popolare: ecco che Ayodele e Adaora (un’aliena e una scienziata!) sono streghe, che le Anthony e Agu, con la sua forza straordinaria il primo, con le sue doti musicali il secondo, fanno incantesimi, gli alieni invasori vengono paragonati a divinità locali, e così via.
Anche in questa visione duplice della scienza/magia (una « doppia descrizione » nel linguaggio epistemologico) emerge la posizione a cavallo tra due culture dell’autrice.

Fantascienza ottimista?

L’invasione aliena è un evento nuovo e inaspettato nella storia dell’Africa. Se ormai siamo abituati all’arrivo dei dischi volanti a Washington e persino a Lucca, nessuno si sarebbe aspettato che gli alieni avessero un qualche interesse ad atterrare proprio in Nigeria.
E invece un paese con evidenti squilibri tra ricchezza e povertà, pieno di contraddizioni, superstizioni e sentimenti forti qual è la Nigeria immaginata dalla Okorafor (che non è necessariamente La Nigeria) è lo scenario ideale per il piano di rinnovamento dell’umanità che hanno in mente gli alieni.
Non si tratta di un’invasione violenta, anche se scatena eventi di violenza. Assistiamo semplicemente alla brusca caduta nell’Oceano di un enorme oggetto, la nave aliena, e un contatto tra i protagonisti e l’ambasciatrice del popolo visitatore.
Il loro scopo non è qualcosa di definito, ma viene descritto semplicemente come «cambiamento »: l’unica cosa che vogliono i visitatori con il loro arrivo è innescare un cambiamento che a sua volta genererà altri cambiamenti. È una scintilla, che porta ad avvenimenti di segno anche opposto: accoglienza e violenza, fanatismo religioso e accettazione del nuovo destino, morti, resurrezioni, ringiovanimenti.
Alla fine di tutto dovrà per forza rinascere una nuova umanità, ma non è detto che il prezzo sia positivo per tutti.
Non mi appassiona il dibattito sulla fantascienza pessimista vs. ottimista, ma da più parti questo romanzo è stato indicato come esempio del secondo tipo.
Nicoletta Vallorani nella postfazione mette anche in risalto il rapporto con le Parabole di Octavia Butler (rapporto che per un’autrice nigeriana dubito che possa essere casuale) in cui una giovanissima orfana di nome Lauren Olamina dà vita a un credo religioso basato sul cambiamento, destinato a rinnovare l’umanità. Ma per quanto Olamina si muova in uno scenario catastrofico, i suoi diari trasudano speranza e fede nel cambiamento nel destino dell’umanità tra le stelle.
Al contrario nel romanzo della Okorafor, se una speranza deve esserci per l’umanità, il cambiamento deve essere innescato e diretto dall’esterno, dallo spazio appunto.
Un ribaltamento di quelle che sono le idee della Butler, e a ben vedere forse una visione meno fiduciosa nelle capacità umane.

Il pidgin

Prima di concludere, non posso che complimentarmi con Chiara Reali, alla sua sesta traduzione per Zona 42, qui alle prese con una difficoltà nuova, il continuo ricorso dell’autrice al pidgin.

Nell’incontro di presentazione al MUFANT di Torino la traduttrice ha spiegato le ragioni della sua scelta di ricorrere non a un dialetto, come altri hanno fatto in passato, ma a un italiano colloquiale, ricorrendo a calchi della pronuncia delle parole italiane. Anche in inglese il pidgin ricalca la pronuncia delle parole invece che la loro grafia, ma renderlo in italiano è comunque difficile perché innanzitutto la lingua parlata dai personaggi non è più, ovviamente, l’inglese, e poi per la maggiore vicinanza, nell’italiano, tra la grafia e il parlato: si perde, in un certo senso, quella difficoltà in più che ha il lettore inglese e che probabilmente accentua la sensazione di estraneità del testo originale ai canoni del romanzo.
Pur trattandosi di un compromesso, da lettore posso dire che la traduttrice ha fatto un ottimo lavoro.
E infine, un plauso anche ad Annalisa Antonini per una delle copertine più suggestive del catalogo di Zona 42, in perfetto stile dei Libri dell’Iguana (penso alle prime in particolare, Desolation Road e Il Sole dei soli).

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