Silvia Tebaldi e i primi sei Nodi

Ci siamo innamorati della scrittura di Silvia Tebaldi con le sue Quattro lune di Giove al Capo delle Volte che è rapidamente diventato uno dei 42Nodi preferiti dai nostri lettori, ma stavolta Silvia ci fa un bellissimo regalo con un testo che riassume la sua esperienza con i nostri primi sei Nodi.
Lo condividiamo con i nostri lettori, sicuri che lo apprezzeranno.

A noi non rimane che ringraziare Silvia, per la sua penna e la sua generosità.

42!

La prima cosa è il nero, nero opaco e bianco. E il colore che è verde, turchese, arancio e rosso, o forse è dire verde aspro, arancio cadmio o ambra, dire ciò che un tempo si chiamò minio, dire rosso 1805 o rosso lacca, verde linfa, tinta tra cielo e acqua, ciano tra oltremare e verde, dire tawny e sap green, ocra, blu pavone.

Il cartoncino opaco, la misura di un taccuino: da qualche parte affiorano parole come enchiridion, come libro da bisaccia. Il libro, questo piccolo oggetto compatto; e i nomi e le figure, immagini che emergono dal nero – elefanti, uccelli, una mappa antichissima, una statua, piante e pupille che emergono dal buio.

A fine gennaio sono già sei, usciti nella collana 42 nodi di Zona 42, “editori di fantascienza e altre meraviglie”, per la cura di Chiara Reali. Li ho letti tutti, in gran parte a voce. Stanno nel territorio della fantascienza e ai suoi confini: in questa lingua di terra sempre con me, come una lingua madre, fin da quando ho imparato a leggere. Una lingua di terra nel mare del tempo, tra futuro e sogno, tra l’antropocene e il suo collasso, tra epica delle rovine e giustizia poetica – un dispositivo di metamorfosi e di resistenza – tra anime fraterne oltre le specie, tra il cielo stellato e quaggiù, dove ci incontriamo.

Sei libri già usciti, sei nodi; ogni uscita, tre volumetti (ogni uscita, una controtrilogia?): tecnicamente si tratta di novelettes, una misura aurea del narrare SF, sul confine tra racconto lungo e romanzo breve. Il primo ricordo è di aver toccato i bordi in cui la coperta si piega nelle ante, che un tempo sentii chiamare ali. In copertina il titolo, L’involo: una fiaba e l’immagine dell’apparato scheletrico di un uccello. Ricordo di aver pensato a cos’è, una storia che si pensa e si racconta, poi si condivide poi  va per conto suo: un condividere come dire immateriale, per voce e memoria, o per segni scritti, su bit e memoria, o per voce incisa e memoria. Oppure un diventar-cosa, diventar-libro, forma solida del narrare, che ha un peso e occupa uno spazio in una tasca, in uno zaino, in una casa.

E poi, leggere. L’empia Babilonia provenzale, assieme petrarchesca e contemporanea, in cui Meschiari e Vena situano una storia di assassinio e investigazione e l’enigma Antropocene e il riflesso del non-cielo. Leggo prima come un racconto, poi come un trattato in cui l’acqua, immensa dentro un libro che ha nome Imperium, sommergerà l’imperium. La Mappa mundi babilonese emerge dal nero in orpimento.

E poi, leggere una storia che mi atterrisce, come tutte le storie con dentro gli occhi, Pupille: Luigi Musolino forse lo sa, per questo deve aver scelto quei corsivi su cui la lettura corre e diventa voce, corsivi che ascolto mentre leggo ed è iride e pupilla in copertina ed è una melodia che è un richiamo.

E sul nome di Topsy e sulle sue canzoni, sugli elefanti radioattivi e su un titolo come L’unica innocua meraviglia, su questo intarsio di passato mitico e futuro di sorellanza, di catene spezzate, ho meditato mentre leggevo e anche quando non leggevo – così come si medita seduti, poi si torna nel tempo e si va.

E poi, leggere la vita di LT, che è quasi mio coetaneo e che diventa adulto mentre la vita aliena invade tutto, vita aliena vegetaleanimale che invade il mondo. Anche qui ho meditato, sullo scrivere le vite e su come le vite dei raccontati diventano grandi, a raccontarle, e sulla vita di LT ho meditato almeno nove giorni, Nove ultimi giorni sul pianeta Terra.

L’involo di Natalia Theodoridou lo ho portato con me, avanti e indietro, nello zaino, per più di una settimana. Lo avevo già letto ma ancora dovevo tenerlo tra le mani – un enchiridion, appunto – e quello che mi ha lasciato dentro è ancora qui, dovunque io vada.

Le Quattro lune di Giove le ho viste io, invece, in una sera di novembre, poi Zona 42 mi ha cercata e sono diventate, o sono diventata, un racconto. Sulla copertina non piante né animali ma il Galata morente, uno dei tre meravigliosi sconfitti arrivati fino a noi mentre le statue dei vincitori, del donario di Pergamo, sono perse per sempre. 

 


 

L’inverno sta per finire. Un giorno sembra estate, riprendo i sei nodi e noto come un tunnel tra le parole.

Nel suo cuore si annida ancora la paura. Essere è essere diffidenti, perciò nel suo cuore si annida ancora la paura.

Tutto cambia, il mondo cambia e le persone cambiano. Proprio come i bambini, i figli, tutto cambia e termina.

Niente di umano e niente di superfluo, tranne noi due.

La pioggia di ogni cielo continua a cadere, come un processo in appello. Entra nel cuore cariato del calcare. Comincia a dissolvere dall’interno le mura e le torri di Babilonia.

Sogna Simos, in piedi sulla riva di un lago immenso, dalle acque verdi e calme. Le dà le spalle, le braccia aperte come se stesse per spiccare il volo.

Ogni segno, gli dèi che parlano.

Le parole non servivano. A volte, l’unico modo per dire a qualcuno che gli vuoi bene è mostrargli qualcosa di bello. A volte, pensò, lo devi far venire da molto lontano.

Poi, a notte fonda, una melodia prese a riecheggiare per le strade del paese e la campagna, intrufolandosi nei sogni e nelle case, svegliandoli.

L’ultimo frutto a essere colto non è furore, ma una canzone: una canzone per imparare, una canzone per insegnare, una canzone per unirsi le une alle altre.

Ci penso ora, qui e ora, nel buio. Mi fido, si fida.

E l’allodola disse: Sei pronta a volare? Labbra perse da sempre. Un fremito d’ali interiori.  

 


 

Il giorno dopo, nevica. Da qualche zona dentro o fuori di me o al confine arriva questo ricordo, Roberto Bolaño, Godzilla en México:

Che cosa siamo? mi domandasti una settimana o un anno dopo:

formiche, api, cifre sbagliate

nella gran zuppa putrefatta del caso?

Siamo esseri umani, figlio mio, quasi uccelli,

eroi pubblici e segreti.

 

Silvia Tebaldi, Bologna, febbraio 2021

Pubblicato in 42Nodi.