Le fortune di Alexander Sand – La postfazione di Michele Vaccari

Quando abbiamo deciso di pubblicare Le fortune di Alexander Sand ci siamo chiesti cosa potevamo fare per offrire ai lettori un ulteriore spunto per una lettura ancor più ricca di un testo dalla personalità unica come questo di Francesco Cane Barca.

Le fortune di Alexander Sand è ambientato in una Genova futura e apocalittica, e questa cosa ci ha aiutato molto a capire a chi rivolgerci.

È stata quindi una grande soddisfazione vedere Michele Vaccari apprezzare il romanzo tanto da regalarci la postfazione che trovate in coda al volume.

Oggi vi proponiamo il suo testo anche sul nostro sito.

Buona lettura!


Le fortune di Alexander Sand è un’opera che gioca con il letterario fin dal titolo: il sapore delle epoche passate, le opere di fantascienza originaria come i grandi capolavori dell’eclettismo, in primis Le avventure del barone di Münchhausen, sono fantasmi che definiscono l’atmosfera, fornendo possibilità narrativa al romanzo contemporaneo, altrimenti in stato terminale. Il fatto che ci garantisce uno stato di continua e rinnovata serenità nella lettura, è la tenuta dell’impresa. Spesso, quando si ha a che fare con un protagonista svelato che prova a tutti i costi a convincerci che le proprie peripezie siano questioni che valga la pena conoscere, il lettore si trova al cospetto di due possibili risposte:

-no, grazie, avrei il gatto nel forno, devo andare.

-ok, ci sto: andiamo all’inferno.

Il secondo caso è un traguardo per ogni esordiente. Significa avere saputo dosare ambizione e concretezza in uguale misura. Significa aver rispettato le regole di gioco,  o meglio: essere riusciti a convincere di averlo fatto. Perché chiunque di noi abbia un po’ di esperienza a intuire i prestigi del mago di turno, cerca di prevenire l’inganno, di intuire dove vada a parare l’autore soprattutto quando mostra un tratto distintivo nello stile e ha un protagonista dotato di un perentorio tono dichiarativo. Nessuno vuole perdere ore dietro un chiacchierone senza sostanza. Cane Barca sembra avere studiato il rischio che porta in sé la prima persona, la prima persona che ci racconta un mistero dal punto di vista meno originale degli ultimi centocinquant’anni, il detective. Come prima cosa, mette al centro ciò che di solito il giallo, il noir, tende a relegare ai margini per valorizzare l’intrigo: la lingua. Affronta i marosi della sintassi e dell’identità con lo spirito sincero del capitano di ventura che tiene dritto il timone mentre va incontro all’ignoto. Lo stile della frase richiama gli andamenti forsennati di una fuga a vento in poppa, nulla a che vedere con le sornione crocierine da quattro soldi che affollano l’oceano della produzione narrativa nostrana. In questa opera prima, Cane Barca riporta in auge l’avanguardia del primo Novecento, la parola come possibilità di scavo, di specchio dell’inconscio.

Il risultato è  una costruzione sintattica sincopata, essenziale, una sceneggiatura di Darren Aronofsky ma senza la droga a giustificare le allucinazioni. Affrontata la burrasca, la prosa approda in lidi più rilassanti, si permette anche passaggi di servizio che addolciscono l’afflato. E qui la storia ci rivela un mondo intorno, finora nascosto. Una dimensione altra dove la voce è la stessa, dritta, scorticata di verbi, congiunzioni, subordinate, come una lebbra di parole che rende la scrittura stessa un’indagine sul futuro dell’io narrante, un interrogativo perturbante, fumosa e improbabile come la guerretta che tiene in assedio lande labirintiche del centro storico da cui il nostro protagonista vuole a tutti i costi scappare: siamo tutti destinati all’omologazione così tipica di questa nostra epoca, o c’è ancora spazio per resuscitare una sana, piratesca decomposizione della lingua? Ma non solo. Cane Barca sembra anche dirci che ciò che sta fuori dall’uomo, ma che è l’uomo, ovvero il suo ambiente, non sarà mai esplicitato in modo diretto come il pensiero interiore di Alexander Sand. Questo perché la ricerca cui è chiamato, la ricerca di una via di fuga  per sé e per chi ama, non è un ricerca del dove vado ma del chi sono.

Ma prima di sprofondare nel mondo di Sabbia, alcune cose per orientarci: dove siamo? Sembra Genova ma è una Genova dal nome di molto prima, Genuaua. Antico e oltre convivono, o meglio: tentano di sopravvivere, mentre l’aria intorno brucia e il mare è diventato illegale. La città vecchia che fa da sfondo alle vicende è circondata da un entroterra citato a sprazzi nella narrazione, un luogo che avrebbe tutto per essere il paradiso in cui scappare dopo i casini in cui si trova il protagonista, ma è una terra desolata, assediata da virus, insetti e probabili pandemie, una prospettiva apocalittica che sposta l’oggi a un domani che sembra solo la sua logica conseguenza.

In questo panorama di cieli scuri e scagnozzi senza scrupoli, si muove Alexander, Sandro, Sandrino, Sandrin, a seconda di chi si rivolge a lui. Fa il detective privato per conto di un pezzo di merda da competizione ma, come nel più archetipico dei noir, qualcosa va storto. Basta qualche pennellata d’insieme e siamo alle calcagna del nostro antieroe, con gli sgherri del capo che vogliono risposte mentre gli omicidi iniziano a moltiplicarsi, perché se sei un cialtrone è facile che la competenza non sia tra le tue doti e magari con una pistola in mano tu faccia tutto il contrario di ciò che sarebbe saggio fare.

Il caleidoscopio di istantanee che scorrono tra le righe sembra sempre sull’orlo di precipitare nel flusso di coscienza più intollerabile ma la storia regge, e finché il filo narrativo è ben teso ogni parola riesce a stare in equilibrio a migliaia di metri dal suolo dove di solito precipitano prove ardite come questa. D’altra parte, camminare sul filo è ciò che fa un uomo d’istinto dopo mesi di allenamento. E se dovessimo definire in qualche modo il romanzo che avete letto, siamo da queste parti, in un regno dove il cervello continua a governare ma ha abdicato ai suoi compiti più faticosi, riflettere sul giusto e sbagliato, risolvere il conflitto col libero arbitrio, il valore della vita il valore della morte, un corpo che ordina alle mani di uccidere, alle gambe di scappare, agli occhi di non guardare oltre la finestra, oltre lo specchio, per non vedere il simbolo della città, la sua Lanterna, crollare, diventare l’ennesima rovina di un mondo col destino segnato.  

E se questi sono i presupposti, è facile immaginare quale sia la naturale piega che prenderanno gli eventi. La dinamica da picaro che riguarda Sandro è gestita con un gusto per la frammentazione, il cut up, che sembra dovere molto ad autori che di questa tecnica hanno fatto il loro marchio di fabbrica, da Céline a Burroughs. Ma non solo. Il lezzo che permea la narrazione è quello dei personaggi guasti di Izzo, di certe fotografie umane cesellate da Massimo Carlotto. Più che di fantascienza, dovremmo parlare di fantapolar, per l’ambientazione portuale, gli inseguimenti senza fiato e il riferimento forte a un mondo alternativo in cui tutto, con estrema normalità, sembra tendere al peggio, il territorio più fertile dove far crescere personaggi, svolte, cambi di fronte, avventure ai confini del genere.

Pubblicato in Le fortune di Alexander Sand.