Convergenza nell’architettura del coro, recensione

Qualche tempo L’indice dei libri del mese ha pubblicato questa splendida recensione firmata da Daniela Fargione a Convergenza nell’architettura del coro di Dare Segun Falowo, tradotto da Giusi Palomba, novelette pubblicata nella collana 42 Nodi a cura di Chiara Reali.

Ve la riproponiamo qui di seguito con il permesso della rivista. 

Buona lettura!


L’ultimo numero di The Dark Magazine, nota rivista dell’horror, del macabro e del weird, include un racconto del giovane autore nigeriano Dare Segun Falowo, il quale nella nota biografica si definisce queer e neurodivergente. Il paradigma della diversità, indice di molteplici forme di disallineamento da prospettive consuete e di una modalità qualitativamente atipica di apprendere il mondo, di percepire i dati della realtà e di elaborare l’informazione sensoriale, è qui da intendere come cifra di insolita abilità.

La premessa è doverosa, perché chiunque si accosti a Convergenza nell’architettura del coro con l’aspettativa di leggere e interpretare un racconto applicando tradizionali categorie occidentali, ne rimarrà inevitabilmente deluso. E altrettanto lo sarebbero coloro che ancora insistono sulla sconvenienza (o addirittura impossibilità) di una scrittura non mimetica radicata in un contesto africano, tanto da equiparare il fantasy alla stregoneria. Originariamente raccolta in Dominion: An Anthology of Speculative Fiction from Africa and the African Diaspora (a cura di Zelda Knight e Ekpeki Oghenechovwe Donald, Aurelia Leo, 2020) questa novelette risponde piuttosto all’assunto che già nel 1974 Joanna Russ, una delle penne più raffinate della fantascienza femminista americana, aveva riconosciuto al genere: la fantascienza è “What if literature”, la letteratura del possibile, una delle forme più efficaci di scrittura politica. Perciò, quando alla fine della storia ci imbattiamo nella lapidaria e potentissima rivelazione del protagonista Akanbi che, incredulo, riconosce in sé il ritorno di una potenzialità di esistenza nella sua più pura essenzialità (“Sentì di nuovo la possibilità di se stesso / He felt himself possible again”), comprendiamo che questa essenzialità non coincide affatto con una univocità, bensì con una infinita variabilità, umana e superumana. Come in un coro, voci, timbri, colorazioni sonore si intrecciano in una multiforme ibridazione che è poi, in fondo, la linfa della letteratura speculativa.

La storia è ambientata a Osupa, un immaginario villaggio nigeriano abitato da una popolazione di etnia Yoruba, nato “nella fuga dalla spada e dal fuoco della guerra”. I sopravvissuti – vedove inconsolabili, oracoli, orfani bambini e alberi, sacerdotesse e spiriti equini, emissari divini e grappoli di uova nell’oceano – condividono spazi e canti, prosperano e dimenticano l’incubo della guerra. Poi, un giorno, arriva la tempesta, e con essa un lungo sonno che inchioda Gbemisola e Akanbi. Al loro risveglio, compare in cielo un vascello alieno che minaccia di rapire gli umani e le loro voci per “ridare forma a questo mondo”, un mondo che si profila come una foresta di canne d’organo in cui il tempo si è spezzato. Il tempo infatti, sottraendosi alla limitante tripartizione di passato, presente e futuro, articola un incedere tortuoso e surreale che delinea nuovi spazi di senso a cui ci si deve mansuetamente affidare. Come scrive Nnedi Okorafor, una delle voci più originali e penetranti dell’afrofuturismo attuale: “il mondo è un posto magico” e le cose, semplicemente, accadono. Ma se Okorafor usa strategie narrative che avvicinano lettori e lettrici al popoloso mondo multiforme afrocentrico, Falowo sceglie arditamente una scrittura visionaria che si addensa nel mistero della lingua poetica.

Daniela Fargione

Pubblicato in 42Nodi, Convergenza nell'architettura del coro.