Avrai i miei occhi, recensioni #7

Sul numero doppio del bimestrale Leggendaria appena uscito trovate un’ottima recensione che Serena Guarracino ha dedicato ad Avrai i miei occhi, di Nicoletta Vallorani.

Ve la proponiamo qui di seguito.


“Milano è una mappa che non leggerò. Da qui si vedono il centro e il confine, e non si riesce a guadagnare il senso di quel che è accaduto”. È forte la tentazione di leggere queste righe, con cui Nicoletta Vallorani apre la breve prefazione al suo nuovo romanzo Avrai i miei occhi (le sentiremo poi, più avanti, dalla narratrice Olivia) e ritrovarvi la Milano di oggi, attraversata dalle bare sottratte al lavoro del lutto e dagli scandali che mostrano una gestione della cosa pubblica troppo attenta all’interesse privato.

Svuotata di vita e di senso, vittima della propria narrazione di sé come città “performante”, che “non si ferma”, la Milano delle cronache sembra aver inverato molto dell’immaginario che Vallorani ha intessuto in tanta sua scrittura, fantascientifica e non, e ancora centrale in Avrai i miei occhi. È questo l’ultimo (sia nella cronologia narrativa che di pubblicazione) di una serie di narrazioni ambientate in un futuro ormai sempre più vicino, in cui la città è stata devastata dalle conseguenze della guerra glupan – la guerra “idiota” o “dei coglioni” in un prestito dal serbo-croato – e di cui Eva, pubblicato da Einaudi nel 2002, rappresenta l’antefatto più remoto. A questo romanzo bisognerebbe arrivare o tornare per conoscere meglio Nigredo (protagonista anche di questo romanzo), investigatore privato nella tradizione dei migliori noir, un passato discutibile da terrorista e un nome preso in prestito dall’alchimia: “nigredo” è infatti la prima fase della creazione della pietra filosofale, quello in cui gli ingredienti alchemici devono morire e decomporsi, perché la putrefazione è il primo stadio della creazione.

Anche questa sembra una suggestione molto vicina al tempo sospeso di quarantena; nel dibattito intellettuale corrente serpeggia un sentire apocalittico, in cui la cesura segnata dall’emergenza covid-19 viene accolta da posizioni politiche anche molto diverse tra loro (dagli oltranzisti religiosi alla sinistra radicale, in termini diversi) come occasione di rinnovamento e ripensamento della vita umana sul pianeta che la ospita. Ma come Susan Sontag, in Malattia come metafora (1979), si raccomandava di resistere alla tentazione di affrancare la malattia dalla corporeità attraverso le metafore, così questo romanzo non può essere appiattito  su  una lettura sintomatica  del  presente. E non solo perché la sua genesi è lunga e attraversa molte scritture: oltre a Eva, da ricordare almeno i racconti della raccolta Il catalogo delle vergini (Future Fiction, 2017) e il breve e intenso Leyla, pubblicato su Sdiario (9 marzo 2020). Soprattutto, Avrai i miei occhi intesse un immaginario complesso, attraversando molti generi letterari, dalla fantascienza al giallo in cui Vallorani si è già cimentata con maestria (come in Dentro la notte, e ciao, 1995, ripubblicato da Laurana nel 2013). Al centro dell’intreccio, come già in Eva, vi sono infatti dei delitti di cui Nigredo deve scoprire il colpevole. Se però nel precedente romanzo i cadaveri erano di notabili appartenenti a quel quinto della popolazione che vive nel privilegio della Città Murata, mutilati e presentati come istallazioni di arte contemporanea, qui i corpi ritrovati sono molti, ammassati in fosse comuni oltre la Cinta, quella parte della città lasciata alla povertà e al crimine. Cadaveri tutti identici tra loro, tutte donne; anzi, tutte ragazzine, «congelate in  posture innaturali» come  ci vengono mostrate, in una scena di fortissimo impatto, all’inizio del romanzo.

In un’intervista a Leggere distopico (13/03/2020), Vallorani ha dato un esplicito valore politico a questo passaggio di focus rispetto al primo romanzo: “L’idea di partenza sta nella cronaca. Le donne vengono violate, discriminate in molti modi, ridotte al silenzio, dimenticate. […] Non c’è modo di girare intorno a questo. È un fatto, e una società civile deve occuparsene”.
Anche in questo caso, sarebbe riduttivo pensare ad Avrai i miei occhi come un commento lineare alla violenza maschile sulle donne. Il tema emerge infatti in maniera musicale, avvolto da una scrittura di innegabile pudore in cui, come nei migliori film horror, l’orrore più grande è quello che non viene mai narrato: quello degli snuff movies. In questa messa in scena dell’orrore le cavie, i cui cadaveri spuntano dalla terra ghiacciata di Milano come perturbanti fiori invernali, vengono utilizzate per “consentire una forma di violenza non punibile per legge”. Corpi spendibili, cose la cui vita è un mistero per gli stessi personaggi (come ricorda il leitmotiv “Non sappiamo niente della vita delle cose”), la cui morte, in una suggestione che ricorda la Judith Butler di Vite precarie (2004), non ha nemmeno diritto al lutto. Corpi tutti, inevitabilmente, femminili: perché Barbablù, ci ricorda Vallorani, aveva solo mogli, e c’è un tipo di violenza che non viene illuminata dall’arcobaleno queer e resta invece rintanato negli angoli oscuri della miseria eterosessuale.

A questa miseria si oppone però, strenuamente, la voce narrante; per la quale Vallorani fa una scelta anticonvenzionale e spiazzante. Eva è narrato da Nigredo, sovrappone quindi il punto di vista del narratore con quello dell’investigatore; mentre nei racconti Vallorani privilegia (con l’eccezione significativa di Taboulhe, incluso in Il catalogo delle vergini) la prima persona di personagge che si muovono, vittime e a volte anche carnefici, nello stesso mondo degli snuff movies esplorato in questo romanzo.
Qui però la narratrice non è né l’investigatore né la vittima: Olivia, tassista dalla cerata gialla come «un frammento di luce», ex falsaria, telepate e soggetto empatico involontario la cui mente può essere attraversata dalle emozioni e dalle sofferenze di tutti gli altri personaggi, è il punto di vista unico e molteplice di questa storia. La sua narrazione ci restituisce un collage frammentato, tenuto insieme da un unico collante: l’amore per Nigredo – non corrisposto, e quindi da rubricare sotto il registro dell’eccesso e dello spreco, correlativo oggettivo delle vite delle cavie massacrate. È a lui che la voce narrante si rivolge costantemente in una seconda persona che è insieme prodezza stilistica e messa in atto della relazione. Eco di quel Tu che mi guardi, tu che mi racconti (1997) in cui Adriana Cavarero mostra come inevitabilmente riceviamo il racconto di noi stesse dall’altro, nella relazione con l’altro, e così viceversa; e uso il maschile non in senso universale, perché Vallorani radica la soggettività di Nigredo profondamente nel maschile, a cui la soggettività femminile di Olivia si mescola in quella che a tratti può sembrare l’evocazione di un’utopia androgina.

In questa narrazione stratificata e complessa, va detto, le fila del crime novel sono serrate, la lettura avvincente; ma il finale (che non svelo) offre una catarsi per lo meno ambigua, che sottrae a chi legge qualsiasi scenario meramente conciliatorio. Vallorani non fa sconti: siamo ancora nella fase della nigredo, della morte purificante; la “rubedo”, la fase del fuoco, dell’androginia e della creazione – se pure si vuole pensare a una progressione lineare e non ciclica – è ancora di là da venire.

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